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Il dondolo è molto diverso da dentro, dove tutto è morbido e organico, e da fuori, dove tutto è rigido e geometrico; spostando poi di poco il mobile gli scorci che si determinano sono molto vari tra loro, offrendo una gradevole mescolanza delle suddette matrici conformative.”
Cosi Renato De Fusco scriveva nel 1986 a riguardo del dondolo n.267 prodotto dalla Società Antonio Volpe. Ancora non era diffusa la documentazione che lo attribuiva alla società di Udine e si pensava che per l’incredibile bellezza di questo esemplare fosse dovuto attribuirlo a Josef Hoffmann, datandolo intorno al 1905.
Da allora gli studi sul mobile in faggio curvato hanno fatto enormi passi in avanti. Oggi – ad esempio – si dovrebbe ricordare, a riguardo del accorgimento del bastone di legno con le due sfere che permette la mobilità dello schienale e del poggiapiedi, che tale accorgimento era stato usato – in metallo -anche da Otto Prutscher nella Morris Fauteuil prodotta da Thonet dal 1905 e non solo da Josef Hoffmann nella sua Morris Armchai (o Sitzmachine come erroneamente viene chiamata la poltrona numero 669 prodotta dalla Josef & Jacob Kohn). Ma a parte queste due notizie che il De Fusco non poteva sapere, la descrizione del dondolo è perfetta.
La Secessione Viennese
Non è un caso quindi che questo dondolo sia nelle collezioni di svariati musei sparsi per il mondo e che, ancora oggi, lo si pubblicizzi erroneamente come esempio della Secessione Viennese. Il dondolo n.267 veniva commercializzato all’inizio degli anni venti in tre versioni. Il modello base, con schienale regolabile e con schienale e poggiapiedi regolabili. Del modello base ne esistono però due versioni.
Uno “puro” e un secondo con dei rinforzi, tipo quelli denominati arcanti per le sedie, tra schienale e i pattini (le ellissi). Il modello base “puro” – quindi senza arcanti – è sicuramente commercializzato prima della prima guerra mondiale e più precisamente tra il 1908 (anno in cui viene fondata la Società Anonima Antonio Volpe) e l’inizio della Prima Guerra Mondiale. Ne è la prova il tipo di etichetta con caratteri tipici del Liberty che si può trovare su alcuni degli esemplari di questo tipo “base”.
Alla mostra d’emulazione ad Udine del 1911 le descrizioni non riportano alcun cenno a dondoli o a poltrone dondolanti quindi è possibile restringere ulteriormente il campo a una produzione tra il 1911 e il 1916 anno in cui a causa della guerra la Volpe rallentò notevolmente la sua produzione fino alla chiusura totale.
Tempi e modelli di base
Visto poi l’uso di dotare i nuovi prodotti con numeri progressivi e l’utilizzo del dondolo n.269 come copertina del primo catalogo del dopoguerra, è probabile che il dondolo 267 nella sua produzione base sia uno degli ultimi prodotti nuovi di Volpe prima della grande guerra. Una nuova restrizione quindi nella datazione potrebbe indicare questo prodotto intorno all’agosto del 1914, mese in cui la Volpe segnala ai propri clienti la difficoltà a consegnare gli ordini per la mancanza del legname proveniente dall’Austria già in guerra.
I due modelli base (con o senza arcanti) non sono disegnati o fotografati su alcun catalogo fino a oggi conosciuto. Il modello con schienale e sedile reclinabile è invece riportato sia nella sua versione chiusa che in quella aperta nel catalogo del 1922. Questo modello è rinforzato da un ulteriore elemento di congiunzione tra i due pattini sotto al sedile che invece è completamente mancante nei modelli base.
I pattini hanno una sezione rettangolare ma leggermente arrotondata nel lato lungo del rettangolo. In questa parte del mobile la società di Udine mette in pratica tutte le conoscenze accumulate nella produzione dei cerchi per bicicletta e nella costruzione dei sulky di fine XIX secolo. Il bracciolo, seppur applicato a fianco del pattino sembra nascere con lui in un unico pezzo. E’ armonico, quasi aerodinamico, nella sua forma. Quanto sono distanti i braccioli che Thonet o Kohn utilizzavano su poltrone, dondoli e chaiselongue?
L’inizio e la fine di una grande storia
Questo dondolo non è solo l’inizio del design italiano ma anche la perfetta conclusione di una storia iniziata nei primi anni sessanta del diciannovesimo secolo. Nel 1862 infatti Michael Thonet e i suoi figli presentarono all’Esposizione Universale di Londra – accanto ad altri modelli considerati oggi pietre miliari della storia del design come ad esempio la sedia numero 14 – il primo dondolo fabbricato con l’utilizzo del faggio piegato a vapore.
Fu il primo di una lunga serie di modelli e di milioni di dondoli che rilassarono uomini, donne e bambini in giro per il mondo. La produzione delle sedie a dondolo si sposava in maniera perfetta con la tecnica della curvatura del legno a vapore. La plasticità, la rotondità che i modelli assumevano erano estremamente superiori alle famose sedie viennesi, nelle quali l’obbligo di avere i quattro appoggi a terra permetteva a Thonet di esibire una complessità di disegno – od una semplicità come nel caso della sedia numero 14 – esclusivamente nel ristretto spazio dello schienale.
Nel dondolo invece la curvatura dei pattini permetteva a tutto il manufatto di avere una uniformità di disegno che si sposava perfettamente con la materia e la tecnologia utilizzata. La rotondità delle sezioni migliorava anche la conservazioni dei tappeti e dei pavimenti in legno sottostanti, in antitesi con quanto accadeva con le prime sedie a dondolo americane soprannominate “carpet cutters”. Quando Thonet inizia a produrre dondoli questo oggetto di arredamento era poco richiesto in Europa mentre negli Stati Uniti – dove già rappresentava un elemento d’arredo caratterizzante la casa americana – era già molto utilizzato.
Brevetti americani
Gli americani facevano uso di sedie e poltrone dondolanti con pattini già da almeno cent’anni e si consideravano, a torto, i primi inventori. Basti pensare che il 13 luglio 1787 il giornalista Manasseh Cutler scriveva sul proprio giornale a proposito della visita all’interno della casa di Filadelfia di Benjamin Franklin, descrivendo di aver veduto una sedia a dondolo invenzione dello stesso. Per dare un’idea della diffusione nel territorio americano, ricordo che dal 1831 al 1905 nei soli Stati Uniti furono concessi più di trecento brevetti per sedie in movimento di cui la maggior parte si riferiscono a sedie a dondolo.
Han Feng Loft NYC, foto di Paul Ryan Goff
Negli altri continenti invece fu Thonet che ne rilanciò l’uso nelle case moderne. Non è un caso che tanti pittori da Renoir a Picasso, ma anche Tissot, Manet, Boldrini e Salvator Dalì, abbiano esaltato la linea della sedia dondolante Thonet utilizzando i modelli di dondolo della casa austriaca nei propri quadri.
Questi dondoli sono sinonimo di tranquillità e di un senso di “calore casalingo” ma esprimono una essenzialità di linea tipica dei tempi moderni. Il dondolo è per definizione un oggetto in movimento – quindi moderno – pur nella sua impossibilità di non potersi spostare mai dal luogo di partenza. Ancora oggi è un oggetto che fa parte degli ambienti domestici di artisti e persone creative.
Una sedia morbida
Il dondolo numero 267 della Società Anonima Antonio Volpe, così come anche il modello successivo, il numero 269, anch’esso di rara bellezza, riassume tutte le caratteristiche dei più belli e innovativi dondoli Thonet. Morbidezza, calore, perfetta conoscenza della materia e della tecnologia utilizzata, modernità, estremamente confortevole nell’utilizzo.
Non era facile creare un modello nuovo che si discostasse dai canoni di costruzione dei dondoli Thonet. In generale tutti i dondoli partivano dal presupposto che il pattino con più o meno volute e curve andava a terminare come montante dello schienale. Solo un modello prima di quello creato da Volpe si discostava da quest’uso comune. Si tratta del modello della Jacob & Josef Kohn n.827 ed altre tipologie brevettate dalla stessa casa austriaca.
Anche qui, come nel 267, di Volpe il pattino è formato da un’ellisse mentre lo schienale è parte a se stante. E’ un modello di taglia piccola, molto “spartano” e decisamente poco elegante. La giunzione del pattino – di sezione tonda – è studiata con una sovrapposizione della stessa sezione nella parte posteriore.
Ai confini dell’impero
Esisteva poi anche un modello di dimensioni normali con la stessa costruzione dell’ovale mentre nello schienale veniva utilizzato il decoro del modello n.822. Quest’ultimo veniva pubblicizzato ancora nel 1910 – accanto allo scrittoio presentato a Torino ed attribuito a Koloman Moser – in una pubblicità del negozio di Berlino. Questo fatto è molto interessante perché veniva associato ai nuovi mobili in stile moderno nonostante per sezione del pattino e dell’uso del legno ricordasse molto di più i modelli classici.
La concezione della costruzione di questi due dondoli prodotti da Kohn è comune a quello di Volpe anche se – accostati – sembrerebbe che il modello 267 fosse costruito a Vienna e i modelli Kohn in qualche luogo di provincia ai confini dell’Impero.
Ma dei richiami ad altri prodotti storici possono comunque essere trovati, come ad esempio alla chaiselongue basculante proposta nei cataloghi Thonet a partire dall’Esposizione di Filadelfia del 1876. Qui per la prima volta si ha un mobile dondolante con la possibilità di uno schienale reclinabile e posizionabile in quattro posizioni distinte.
Evoluzione del modello base
I richiami alla vera Sitzmachine, quella brevettata con il numero 38223 dalla Jacob & Josef Kohn nel 1908, sono altresì evidenti. La sfera di fine corsa dal pattino ad esempio, lo stesso pattino con una linea curva chiusa, quasi una ellisse deformata, lo schienale – nella versione a dondolo – che viene fermato da un bastone che appoggia sui due pattini.
Non sappiamo se la dirigenza della Antonio Volpe fosse al corrente di tale brevetto ma sicuramente avevano visto la poltrona numero 669 all’Esposizione di Milano, non bisogna però fare l’errore di confrontare il modello più complesso di Volpe – quello con poggiapiedi e schienale reclinabile – con questi illustri esempi. Bisogna ricordare che il modello base è il primo ad essere prodotto. Questo è un semplice dondolo che non possiede possibilità di variare le posizioni dello schienale e del poggiapiedi. Quello che viene accostato alla Sitzemachine è un’evoluzione del modello base.
Il modello n.267 più completo della Società Anonima Antonio Volpe, quello con tre posizioni dello schienale e quattro per il poggiapiedi (tre più una con il poggiapiedi riposto sotto il sedile), è una sintesi, quella finale, – in meglio – di tutti i modelli storici a cui abbiamo accennato. Solo in questa conformazione si possono effettuare paragoni appropriati con la vera Sitzemachine.
L’originalità formale del modello n.267 è associata ad una perfetta funzionalità. Il baricentro spostato rispetto alle normali dell’ellisse viene riequilibrato – a seconda dell’utilizzatore – dai diversi possibili posizionamenti dello schienale e del poggiapiedi.
Questione di equilibrio
Una volta raggiunto il suo equilibrio il dondolo oscilla grazie a un movimento anche parziale di una parte del corpo di chi ci è seduto sopra; anche un piccolo movimento del collo, ad esempio, viene percepito dalla struttura del dondolo che ricerca immediatamente un nuovo punto di equilibrio. Questa perfezione, raggiunta nel modello con il poggiapiedi e lo schienale reclinabile, viene pagato però da una certa difficoltà nell’uscire da questa macchina dondolante che fa sì che rimanga un dondolo utilizzabile da persone di una certa altezza.
Si è già ricordato l’errata attribuzione di questo modello da parte del mercato antiquario tra il 1960 e il 1980. Ma se non è stato Josef Hoffmann a disegnare questo dondolo chi è stato?
È fuori di dubbio che alcuni modelli presenti nel catalogo della Volpe del 1921 abbiano una mano e una mente che non può che essere con formazione austriaca. Ma il primo modello veramente originale e di qualità paragonabile a quelle viennesi si trova, nella produzione Volpe, ben prima della guerra mondiale.
Max Fabiani è l’autore del dondolo?
Sicuramente di tutti i nomi di architetti del periodo della Secessione Viennese, di scuola austriaca, quello di Fabiani è il più vicino al territorio italiano. Nato a San Daniele il 29/04/1865, Fabiani rimarrà sempre legato alla sua zona di origine e come è già stato accennato i suoi rapporti di lavoro lo portano di frequente a viaggiare e lavorare in territorio italiano e in territorio austriaco ma di lingua italiana.
La sua famiglia ha importanti cariche a Trieste. Edmund è consigliere imperiale di luogotenenza a Trieste, Louis è Consigliere Aulico della Luogotenenza Imperiale sempre a Trieste e Willi è un funzionario del Lloyd Austriaco. Finita la guerra Max (Maximilian o Massimo) Fabiani lavorerà nella zona tra Gorizia e Udine per diversi progetti urbanistici. Ancora a Gorizia e a Trieste progetterà diversi edifici ma già prima del conflitto mondiale Fabiani passa diverso tempo in Italia sia per studio che per lavoro. I suoi lavori architettonici sono tra i pochi presentati per l’Austria all’Esposizione di Roma del 1911.
Max Fabiani non è solo un abile architetto, uno dei primi urbanisti moderni ma anche una figura che spazia in tutti i campi professionali che possono interessare un’architetto e non solo. E’ una mente geniale e alcuni suoi progetti verranno brevettati. Non deve stupire un avvicinamento alla Volpe magari grazie ai nuovi soci come Gino Toso che sarà uno dei fondatori del Lloyd Adriatico e che doveva essere in contatto con il fratello Willi già funzionario del Lloyd Austriaco.
Nell’attività progettuale poi il Fabiani usa spesso la forma dell’ellisse e dell’ovale sia in pianta che nei suoi prospetti. Basta ricordare la forma della piscina dei giardini di casa Ferrari, l’ingresso ovale della villa Karma, o le scale a forma ellittica dell’Artaria o del palazzo Trgosvki dom (oggi la biblioteca) a Gorizia o la stessa forma dell’Urania a Vienna o degli stessi elementi decorativa della sua facciata.
Puntare sulla sostanza
Così come non deve stupire la poca pubblicità che la Volpe e i giornali italiani dell’epoca potessero dare al l’architetto austriaco ancora nel dopoguerra guardato in maniera ostile per la sua formazione asburgica. Il dondolo poi riassume alcuni dettami del pensiero di Fabiani: eliminare le decorazioni e tutto quanto sia superfluo, conoscenza della materia e della tecnica utilizzata, liberarsi da tutte le convenzioni.
Il modello 267 non rimase a lungo nei cataloghi della Volpe. Già negli anni trenta era scomparso. Riapparve in produzione alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta grazie alla MC Selvini che ne produce a Milano – in tiratura limitata – il modello fisso. Nel decennio successivo è la Wittman, a Vienna, che riproduce il modello con poggiapiedi e schienale regolabili in versione laccata nera. L’ultima riproduzione alla fine degli anni Novanta grazie ad una fabbrica francese che riproduce in color naturale ancora il modello più complicato.
Un oggetto che dimostra come la bellezza sappia attraversare i tempi e continuare ad emozionare, trovando spazio e rilevanza nel mercato e nella storia del design.
Gianni
9 Marzo
Giovanni,
mi capita ogni tanto di riprendere in mano uno dei tuoi bei libri, lo sfoglio per le immagini, lo leggo, me lo godo (mi succede anche con gli interventi sul blog).
Oggi avevo per le mani l’ultimo, che con Manuela avete fatto sulla Antonio Volpe. In copertina c’è la bellissima foto del vostro dondolo 267 regolabile, di cui si parla anche in questo post. Guarda e riguarda mi viene da notare che le proporzioni dell’elisse, se non sono proprio quelle del rapporto aureo, ci si assomigliano davvero molto. Prendo un righello e, nonostante che la deformazione prospettica modifichi diversamente le lunghezze orizzontali da quelle verticali, che non sia chiarissimo dove incominciare e dove finire, considero che l’errore sulle misure (a me interessano poi le proporzioni) non dovrebbe essere grande anche perché la ripresa è stata fatta da un punto sul piano trasversale mediano appena sopra il centro dell’elisse. Ebbene, mi risulta un 2,5% meno del rapporto aureo: quasi niente. Non sono contento e dentro il libro, a pag 71 c’è la foto dell’altro dondolo 267, quello fisso, sempre della vostra collezione. In questa foto questo dondolo sembra un po’ più panciuto, la ripresa comporta maggiori deformazioni di prospettiva, questa volta la differenza è minore: 0,75% sopra il rapporto aureo.
Conclusione: sarebbe interessante che tu ti munisca di un metro e prenda le misura degli assi delle elissi dei vostri due dondoli e ci relazioni su quello che se ne ricava. In ogni caso c’è da considerare che, probabilmente non ricercata nel caso particolare (o forse sì?), la proporzione aurea appaga veramente l’occhio anche se non ne siamo consapevoli (Wikipedia dice che si chiama anche costante di Fidia e anche proporzione divina: un motivo vedrai che c’è). C’è da considerare poi che le differenze da me calcolate rispetto al rapporto matematico esatto, anche se dovessero essere giuste, sono veramente impercepibili.
Giovanni Renzi
10 Marzo
Caro Gianni, quando ho scritto il libro sulla Volpe avevo già preso il metro e avevo calcolato l’eccentricità e il posizionamento dei fuochi pensando che poteva essere poi utile parlare con un matematico per vedere se l’ellisse era una ellisse particolare. Cosa che purtroppo non ho più fatto! Non avevo invece preso in considerazione il rapporto aureo. Ho rimisurato gli assi (anche dal vero non è per niente un’operazione precisa) e le dimensioni del dondolo 267 fisso è di 109 cm x 67,2 ca. Tenendo conto di una certa usura di qualche millimetro direi che avevi proprio ragione. il numero che viene dal loro rapporto è incredibilmente vicino se pensiamo alla lavorazione che le aste subiscono dopo la curvatura. Non credo possa essere un caso. Il dondolo ha una meccanica di movimento veramente perfetta e difficilmente riscontrabile in altri dondoli sia di Thonet che di Kohn. La tua idea mi fa venire voglia di approfondire l’argomento per vedere quando il rapporto aureo sia stato utilizzato nel design. So che alcuni loghi (Apple, Twitter) hanno utilizzato il numero aureo nella composizione del logo ma sarebbe interessante vedere se esistono oggetti di arredo in cui è stato applicato. La seconda considerazione che mi viene spontanea dal tuo intervento è che ancora una volta l’attribuzione a Max Fabiani, geniale mente che ha spaziato dall’architettura all’urbanistica, dagli arredi alla filosofia fino ad arrivare ad incredibili invenzioni, possa essere stata corretta. Anche su questa via si potrebbe andare a vedere se Fabiani ha utilizzato il rapporto aureo nelle sue architetture; mi vengono in mente ad esempio la pianta di Urania o le innumerevoli scale a chiocciola presenti negli edifici progettati dal famoso architetto italiano/sloveno/austriaco. Grazie ancora per il tuo intervento.